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Adolescenti in rotta di collisione: normalità o patologia? I genitori a colloquio con lo psicologo
I rapporti con un figlio adolescente sono sovente tesi, difficili, conflittuali. Sappiamo che ciò è di per sé normale perché in adolescenza il futuro giovane adulto deve affermare la propria individualità e la propria autonomia; ma vi sono situazioni di difficoltà crescente in cui i genitori si mettono in discussione e decidono di rivolgersi allo psicologo. Quasi sempre il figlio adolescente si rifiuta di partecipare all’incontro (‘Non sono mica matto !’), ma i genitori cercano ugualmente aiuto.
Quando incontro come psicologa genitori in crisi con i figli adolescenti, di solito la loro richiesta è: possiamo avere consigli su come trattare col figlio, farci obbedire, affrontare i temi dello studio, degli orari, dell’uso esagerato dello smartphone …? I consigli in realtà di solito servono a poco: mi è accaduto più volte di incontrare genitori che erano già stati da altri psicologi che avevano dato loro ottimi consigli; quando però, nel vivo della situazione di crisi, non erano riusciti ad applicarli, si erano sentiti incapaci e la situazione era peggiorata.
Il mio primo obiettivo è di evitare che la crisi adolescenziale sia considerata come segno di patologia: come abbiamo visto un periodo difficile è da considerarsi normale, salvo situazioni specifiche che presentano sintomi evidenti (ad esempio sintomi alimentari) o comportamenti estremi (ad esempio violenza agita e ripetuta). E’ bene ricordare che a questa età le situazioni sono in rapida evoluzione, e il come evolveranno dipenderà anche da noi specialisti. Io cerco innanzi tutto di evidenziare i valori e le risorse di tutti e di ciascuno. Si può scoprire allora che un sedicenne che rischia di perdere l’anno scolastico ha grandi doti sportive e nello sport si impegna con costanza e dedizione; o che una quindicenne in perenne conflitto con la madre e la sorella minore, frequenta gli scout e in quel contesto è disponibile e generosa. Valorizzare questi aspetti positivi, e sottolineare il fatto che i genitori evidentemente ne hanno qualche merito, è il primo passo affinchè l’immagine negativa che i genitori hanno ormai del figlio, e quindi di sé, inizi a migliorare. Proporrò poi di ripercorrere la storia del nucleo familiare e insieme ai genitori cercheremo di ‘leggere’ il comportamento del figlio come una richiesta, una provocazione, uno stimolo:
vi sta chiedendo di dargli più fiducia?
Oppure di essere d’accordo davvero, e non solo formalmente, su quali permessi e quali limiti dargli?
Sta provocandovi perché ha l’impressione che vi stimiate poco come genitori, in quanto i nonni non vi hanno stimato molto?
Si tratta di ‘richieste’ implicite e certamente mal formulate, ma se è possibile ‘vederle’ per quello che sono tutto può cambiare; se il figlio provoca il genitore, vuol dire che ha fiducia in lui, nella sua capacità di reggere l’impatto, ma anche di interrogarsi e comprendere il figlio stesso; ha fiducia di essere amato e importante per il genitore. E il fatto stesso che i genitori si siano messi in discussione e abbiano cercato un aiuto dimostra che tale fiducia è ben riposta.
Vedendo le provocazioni del figlio sotto una luce diversa, innanzitutto non le si considera più prova di inadeguatezze e carenze dell’adolescente, dei genitori o della loro relazione.
In secondo luogo comprendendone il significato e rispondendo loro per quello che sono, genitori e figli da quasi nemici, come si percepivano, spesso si scoprono cooperanti per affrontare un problema che li disturba entrambi.
Quando incontro come psicologa genitori in crisi con i figli adolescenti, di solito la loro richiesta è: possiamo avere consigli su come trattare col figlio, farci obbedire, affrontare i temi dello studio, degli orari, dell’uso esagerato dello smartphone …? I consigli in realtà di solito servono a poco: mi è accaduto più volte di incontrare genitori che erano già stati da altri psicologi che avevano dato loro ottimi consigli; quando però, nel vivo della situazione di crisi, non erano riusciti ad applicarli, si erano sentiti incapaci e la situazione era peggiorata.
Il mio primo obiettivo è di evitare che la crisi adolescenziale sia considerata come segno di patologia: come abbiamo visto un periodo difficile è da considerarsi normale, salvo situazioni specifiche che presentano sintomi evidenti (ad esempio sintomi alimentari) o comportamenti estremi (ad esempio violenza agita e ripetuta). E’ bene ricordare che a questa età le situazioni sono in rapida evoluzione, e il come evolveranno dipenderà anche da noi specialisti. Io cerco innanzi tutto di evidenziare i valori e le risorse di tutti e di ciascuno. Si può scoprire allora che un sedicenne che rischia di perdere l’anno scolastico ha grandi doti sportive e nello sport si impegna con costanza e dedizione; o che una quindicenne in perenne conflitto con la madre e la sorella minore, frequenta gli scout e in quel contesto è disponibile e generosa. Valorizzare questi aspetti positivi, e sottolineare il fatto che i genitori evidentemente ne hanno qualche merito, è il primo passo affinchè l’immagine negativa che i genitori hanno ormai del figlio, e quindi di sé, inizi a migliorare. Proporrò poi di ripercorrere la storia del nucleo familiare e insieme ai genitori cercheremo di ‘leggere’ il comportamento del figlio come una richiesta, una provocazione, uno stimolo:
vi sta chiedendo di dargli più fiducia?
Oppure di essere d’accordo davvero, e non solo formalmente, su quali permessi e quali limiti dargli?
Sta provocandovi perché ha l’impressione che vi stimiate poco come genitori, in quanto i nonni non vi hanno stimato molto?
Si tratta di ‘richieste’ implicite e certamente mal formulate, ma se è possibile ‘vederle’ per quello che sono tutto può cambiare; se il figlio provoca il genitore, vuol dire che ha fiducia in lui, nella sua capacità di reggere l’impatto, ma anche di interrogarsi e comprendere il figlio stesso; ha fiducia di essere amato e importante per il genitore. E il fatto stesso che i genitori si siano messi in discussione e abbiano cercato un aiuto dimostra che tale fiducia è ben riposta.
Vedendo le provocazioni del figlio sotto una luce diversa, innanzitutto non le si considera più prova di inadeguatezze e carenze dell’adolescente, dei genitori o della loro relazione.
In secondo luogo comprendendone il significato e rispondendo loro per quello che sono, genitori e figli da quasi nemici, come si percepivano, spesso si scoprono cooperanti per affrontare un problema che li disturba entrambi.
Genitori in difficoltà: la consulenza dello psicologo
Un genitore, o una coppia di genitori, possono consultare lo psicologo per difficoltà nel rapporto con un figlio. È logico che, inizialmente, si aspettino che l’esperto dia loro il ‘consiglio giusto’, cioè una indicazione pratica sul come comportarsi con il figlio. Ma le cose, di solito, non sono così semplici.
I consigli pratici funzionano molto bene con gli oggetti o le macchine; ad esempio quando si tratta di imparare a guidare l’automobile, a usare un programma del pc, a confezionare una torta, a riparare un oggetto, a eseguire un compito anche molto difficile. In tutti questi casi il risultato è prevedibile perché funziona una logica causa-effetto (il comportamento A è la causa del risultato B; e quindi: per ottenere il risultato B è sufficiente adottare il comportamento A). Ma un figlio, come ogni altro essere umano, è un soggetto, ha una sua personalità e un suo modo di pensare... Egli quindi risponderà al comportamento del genitore a modo suo, un modo che è sostanzialmente imprevedibile. Nessuno può sapere in anticipo, e con certezza, come il figlio reagirà a un comportamento che i genitori adottino su suggerimento dello psicologo.
Nelle relazioni umane in realtà avviene sempre così (e per fortuna, possiamo aggiungere: altrimenti saremmo degli automi, dei robot prevedibili e noiosissimi!).
In cosa consiste allora la consulenza ai genitori? Lo psicologo cercherà, innanzi tutto, di capire la difficoltà, e lo farà insieme ai genitori. Li guiderà a mettere in relazione il problema con altri aspetti della storia della famiglia, in modo da poterlo vedere sotto una luce diversa. E solo allora psicologo e genitori potranno pensare a come comportarsi con il figlio.
Attraverso il dialogo, psicologo e genitori arriveranno insieme a concordare un atteggiamento o un comportamento che si ritiene possa risultare utile; e, dopo che i genitori hanno provato ad adottarlo, sarà comunque necessario parlarne di nuovo insieme al fine di valutarne gli effetti.
Questo approccio basato sul dialogo riconosce i genitori come esperti del loro problema: sono loro, e solo loro, che conoscono la difficoltà di relazione con il figlio, che la vivono sulla propria pelle, e che vivranno dal vivo le risposte del figlio ai loro tentativi di cambiare atteggiamento. Lo psicologo è esperto nel guidarli a vedere la difficoltà sotto un’altra prospettiva e in relazione ad altri aspetti: in questo modo le competenze dei genitori e la competenza dello psicologo si incontrano e collaborano.
I consigli pratici funzionano molto bene con gli oggetti o le macchine; ad esempio quando si tratta di imparare a guidare l’automobile, a usare un programma del pc, a confezionare una torta, a riparare un oggetto, a eseguire un compito anche molto difficile. In tutti questi casi il risultato è prevedibile perché funziona una logica causa-effetto (il comportamento A è la causa del risultato B; e quindi: per ottenere il risultato B è sufficiente adottare il comportamento A). Ma un figlio, come ogni altro essere umano, è un soggetto, ha una sua personalità e un suo modo di pensare... Egli quindi risponderà al comportamento del genitore a modo suo, un modo che è sostanzialmente imprevedibile. Nessuno può sapere in anticipo, e con certezza, come il figlio reagirà a un comportamento che i genitori adottino su suggerimento dello psicologo.
Nelle relazioni umane in realtà avviene sempre così (e per fortuna, possiamo aggiungere: altrimenti saremmo degli automi, dei robot prevedibili e noiosissimi!).
In cosa consiste allora la consulenza ai genitori? Lo psicologo cercherà, innanzi tutto, di capire la difficoltà, e lo farà insieme ai genitori. Li guiderà a mettere in relazione il problema con altri aspetti della storia della famiglia, in modo da poterlo vedere sotto una luce diversa. E solo allora psicologo e genitori potranno pensare a come comportarsi con il figlio.
Attraverso il dialogo, psicologo e genitori arriveranno insieme a concordare un atteggiamento o un comportamento che si ritiene possa risultare utile; e, dopo che i genitori hanno provato ad adottarlo, sarà comunque necessario parlarne di nuovo insieme al fine di valutarne gli effetti.
Questo approccio basato sul dialogo riconosce i genitori come esperti del loro problema: sono loro, e solo loro, che conoscono la difficoltà di relazione con il figlio, che la vivono sulla propria pelle, e che vivranno dal vivo le risposte del figlio ai loro tentativi di cambiare atteggiamento. Lo psicologo è esperto nel guidarli a vedere la difficoltà sotto un’altra prospettiva e in relazione ad altri aspetti: in questo modo le competenze dei genitori e la competenza dello psicologo si incontrano e collaborano.
Come vive un figlio la separazione dei genitori?
L’avere i genitori separati presenta un certo grado di complessità e richiede ai figli capacità di adattamento, ad es. nell’avere due case e due nuclei familiari, nel gestire il passaggio dall’uno all’altro e la separazione temporanea da un genitore per stare con l’altro.
Ogni figlio trova il proprio modo personale di stare nella separazione dei genitori. Per questo la separazione, come tutte le esperienze che richiedono uno sforzo di adattamento creativo, può offrire occasioni di apprendimento e di collaudo di sé.
Può costituire inoltre allenamento per tutte le “separazioni” di cui è costellata la crescita e la vita stessa: separazione dal mondo protetto e dorato dell’infanzia, dalle immagini ideali di sé e degli altri, dai genitori stessi, per addentrarsi maggiormente nel mondo sociale allargato e nelle responsabilità della vita adulta.
Ci sono però caratteristiche delle separazioni che possono rendere più difficile e doloroso l’adattarsi a tale situazione. In base alla mia esperienza di counseling con genitori e ragazzi, vorrei sottolinearne in particolare due significative:
1. Il primo caso si verifica quando la separazione porta ad un allontanamento e alla perdita della frequentazione regolare di uno dei due genitori, più sovente il padre, talvolta la madre. In tale evenienza il figlio vive un dolore della perdita e un sentirsi abbandonato, di cui è difficile darsi una spiegazione, e spesso se ne attribuisce la colpa ( “se fossi stato più bravo o avessi soddisfatto di più le aspettative dei miei genitori, non si sarebbero separati o mio padre non se ne sarebbe andato…”)
2. Il secondo caso si verifica quando permane una situazione di forte conflitto e di sofferenza nei confronti della separazione, da parte dei genitori stessi o di uno dei due. Questo può portare il figlio a sentire di tradire o di fare un torto ad un genitore se vuole bene anche all’altro, soprattutto quando avverte un genitore più debole o addirittura “vittima”. Può accadere che egli non si senta libero di voler bene ad entrambi i genitori, pur con i loro limiti e con i normali conflitti.
E’ importante, dunque, che entrambi i genitori facciano lo sforzo di essere presenti per come riescono, e che non si adoperino per allontanare l’altro dalla vita dei figli. E’ comprensibile provare sentimenti di rabbia, di delusione nei confronti di un partner da cui ci si è separati; però è importante fare un passo indietro, considerando che l’altro, come padre o madre, può essere meglio o comunque diverso da come è stato come compagno/a, e che è corretto e formativo che sia il figlio a fare le proprie valutazioni.
Nella situazione in cui non sia possibile ottenere la presenza di entrambi i genitori, è importante comprendere il sentimento di mancanza provato dal figlio e sostenerlo affinchè non se ne senta in alcun modo responsabile.
I ragazzini hanno bisogno di entrambi i genitori ed è importante che si sentano liberi di vivere il rapporto con loro e di prendere le proprie misure con i limiti e le ricchezze di esso, tanto più nella preadolescenza, in cui ne avvertono di più il bisogno e soprattutto hanno più risorse per confrontarsi realisticamente con i propri genitori.
Ogni figlio trova il proprio modo personale di stare nella separazione dei genitori. Per questo la separazione, come tutte le esperienze che richiedono uno sforzo di adattamento creativo, può offrire occasioni di apprendimento e di collaudo di sé.
Può costituire inoltre allenamento per tutte le “separazioni” di cui è costellata la crescita e la vita stessa: separazione dal mondo protetto e dorato dell’infanzia, dalle immagini ideali di sé e degli altri, dai genitori stessi, per addentrarsi maggiormente nel mondo sociale allargato e nelle responsabilità della vita adulta.
Ci sono però caratteristiche delle separazioni che possono rendere più difficile e doloroso l’adattarsi a tale situazione. In base alla mia esperienza di counseling con genitori e ragazzi, vorrei sottolinearne in particolare due significative:
1. Il primo caso si verifica quando la separazione porta ad un allontanamento e alla perdita della frequentazione regolare di uno dei due genitori, più sovente il padre, talvolta la madre. In tale evenienza il figlio vive un dolore della perdita e un sentirsi abbandonato, di cui è difficile darsi una spiegazione, e spesso se ne attribuisce la colpa ( “se fossi stato più bravo o avessi soddisfatto di più le aspettative dei miei genitori, non si sarebbero separati o mio padre non se ne sarebbe andato…”)
2. Il secondo caso si verifica quando permane una situazione di forte conflitto e di sofferenza nei confronti della separazione, da parte dei genitori stessi o di uno dei due. Questo può portare il figlio a sentire di tradire o di fare un torto ad un genitore se vuole bene anche all’altro, soprattutto quando avverte un genitore più debole o addirittura “vittima”. Può accadere che egli non si senta libero di voler bene ad entrambi i genitori, pur con i loro limiti e con i normali conflitti.
E’ importante, dunque, che entrambi i genitori facciano lo sforzo di essere presenti per come riescono, e che non si adoperino per allontanare l’altro dalla vita dei figli. E’ comprensibile provare sentimenti di rabbia, di delusione nei confronti di un partner da cui ci si è separati; però è importante fare un passo indietro, considerando che l’altro, come padre o madre, può essere meglio o comunque diverso da come è stato come compagno/a, e che è corretto e formativo che sia il figlio a fare le proprie valutazioni.
Nella situazione in cui non sia possibile ottenere la presenza di entrambi i genitori, è importante comprendere il sentimento di mancanza provato dal figlio e sostenerlo affinchè non se ne senta in alcun modo responsabile.
I ragazzini hanno bisogno di entrambi i genitori ed è importante che si sentano liberi di vivere il rapporto con loro e di prendere le proprie misure con i limiti e le ricchezze di esso, tanto più nella preadolescenza, in cui ne avvertono di più il bisogno e soprattutto hanno più risorse per confrontarsi realisticamente con i propri genitori.
Il mio ex non dà il consenso alla psicoterapia del figlio: che fare?
Le separazioni, come sappiamo, sono sempre dolorose. Ma ve ne sono alcune più drammatiche e laceranti di altre: ciò accade quando i rapporti tra i due ex coniugi restano a lungo altamente conflittuali, recriminatori, accusatori. In questi casi i figli vengono a volte esplicitamente ‘presi in mezzo’, cioè chiamati ad allearsi con l’uno dei due contro l’altro. Questa situazione, come è facile immaginare, può provocare sofferenza, disagio, a volte sintomi, nei figli o in uno dei figli.
In questi casi può presentarsi un ulteriore ostacolo. Poiché per seguire in psicoterapia un minore è necessario l’assenso esplicito e scritto di entrambi i genitori (codice deontologico psicologi), può accadere che quando l’uno dei due genitori propone un aiuto psicologico per il figlio, l’altro non acconsenta – e ciò non necessariamente perché non ritiene utile l’intervento dello psicologo, ma proprio per contrapporsi all’ex coniuge.
Come può comportarsi in questi casi il genitore separato che, vedendo il figlio soffrire, vorrebbe aiutarlo facendolo seguire in psicoterapia, ma non riesce a convincere l’ex coniuge ad acconsentire? Il genitore può rivolgersi a uno psicologo per una consulenza genitoriale specifica, che almeno inizialmente non coinvolge né il figlio né l’ex coniuge.
Lo psicologo lavorerà con il genitore facendo leva sulla sua disponibilità a mettersi in gioco al fine di aiutare il figlio. Innanzi tutto cercherà di capire con il genitore le manifestazioni di sofferenza e di disagio del figlio: cosa sta ‘dicendo’ il figlio con il suo comportamento o i suoi sintomi? Sta comunicando qualcosa ai due genitori? E quali emozioni provoca quel disagio nel genitore? Potrebbe il genitore, pur senza volerlo, rispondere in un modo che non aiuta il figlio?
Un tema forse più difficile che lo psicologo può affrontare con il genitore disponibile è il conflitto di coppia ancora aperto. Anche in questo caso ci si può domandare: il genitore non risponde all’ex coniuge con modalità che possono alimentare il conflitto? E come invece potrebbe comportarsi per ridurre la conflittualità? Questo lavoro può risultare utilissimo.
Ricordo una mamma disperata ma molto disponibile a mettersi in discussione: al termine di questo lavoro abbiamo potuto scrivere una breve lettera all’ex coniuge in cui lei riconosceva innanzi tutto la propria parte nel mantenere aperto il conflitto ed esprimeva tutta la sua preoccupazione per il figlio. A seguito di questa lettera l’ex coniuge ha accettato di partecipare a un incontro, e ha poi acconsentito a che il figlio fosse seguito in psicoterapia. Nei fatti ho visto il figlio una volta con la mamma, una volta con il papà e solo alcune volte individualmente. Il disagio del bambino è rientrato quasi subito non appena la conflittualità tra i genitori è diminuita.
In questi casi può presentarsi un ulteriore ostacolo. Poiché per seguire in psicoterapia un minore è necessario l’assenso esplicito e scritto di entrambi i genitori (codice deontologico psicologi), può accadere che quando l’uno dei due genitori propone un aiuto psicologico per il figlio, l’altro non acconsenta – e ciò non necessariamente perché non ritiene utile l’intervento dello psicologo, ma proprio per contrapporsi all’ex coniuge.
Come può comportarsi in questi casi il genitore separato che, vedendo il figlio soffrire, vorrebbe aiutarlo facendolo seguire in psicoterapia, ma non riesce a convincere l’ex coniuge ad acconsentire? Il genitore può rivolgersi a uno psicologo per una consulenza genitoriale specifica, che almeno inizialmente non coinvolge né il figlio né l’ex coniuge.
Lo psicologo lavorerà con il genitore facendo leva sulla sua disponibilità a mettersi in gioco al fine di aiutare il figlio. Innanzi tutto cercherà di capire con il genitore le manifestazioni di sofferenza e di disagio del figlio: cosa sta ‘dicendo’ il figlio con il suo comportamento o i suoi sintomi? Sta comunicando qualcosa ai due genitori? E quali emozioni provoca quel disagio nel genitore? Potrebbe il genitore, pur senza volerlo, rispondere in un modo che non aiuta il figlio?
Un tema forse più difficile che lo psicologo può affrontare con il genitore disponibile è il conflitto di coppia ancora aperto. Anche in questo caso ci si può domandare: il genitore non risponde all’ex coniuge con modalità che possono alimentare il conflitto? E come invece potrebbe comportarsi per ridurre la conflittualità? Questo lavoro può risultare utilissimo.
Ricordo una mamma disperata ma molto disponibile a mettersi in discussione: al termine di questo lavoro abbiamo potuto scrivere una breve lettera all’ex coniuge in cui lei riconosceva innanzi tutto la propria parte nel mantenere aperto il conflitto ed esprimeva tutta la sua preoccupazione per il figlio. A seguito di questa lettera l’ex coniuge ha accettato di partecipare a un incontro, e ha poi acconsentito a che il figlio fosse seguito in psicoterapia. Nei fatti ho visto il figlio una volta con la mamma, una volta con il papà e solo alcune volte individualmente. Il disagio del bambino è rientrato quasi subito non appena la conflittualità tra i genitori è diminuita.
Ciao mamma. La separazione dalla madre e la costruzione del sè in preadolescenza
Vorrei analizzare con voi come viene vissuta la dolorosa, ma vitale separazione fra madre e figlio, e la progressiva autonomizzazione di quest’ultimo, dal punto di vista delle madri e dei figli, a partire dalla mia esperienza di psicologa dello sportello di ascolto nelle scuole medie, a cui si rivolgono sia genitori che ragazzini.
Come il parto, processo intensamente vitale, è intriso di paure e di dolore, così lo è “la nascita sociale” del ragazzino, cioè il suo ingresso in un mondo sociale più ampio e meno protetto di quello della famiglia e della stessa scuola elementare: l’ingresso nella scuola media, e soprattutto nel gruppo dei pari, la cui frequentazione ed appartenenza inizia ad essere gestita autonomamente dal ragazzino.
A partire dall’analisi di un importante momento di separazione madre-figlio: la preadolescenza (12 anni), che richiama tutti i precedenti momenti di distacco, cercheremo di capire quella sensazione, da un lato, di aspettativa, bisogno e ricerca di vicinanza, e allo stesso tempo di alterità, di separazione e di solitudine, che si sperimenta e ci accompagna per lungo tempo, se non per tutta la vita, come figli/e nei confronti della madre, e poi come madri nei confronti dei figli/e.
Iniziamo ad analizzare tale groviglio di sentimenti dal punto di vista dei ragazzini, sulla base dei loro racconti.
Nel momento in cui essi abbandonano il mondo protetto delle elementari, della famiglia, dell’infanzia, per entrare in quello più ampio e meno sicuro della scuola media, e in particolare del gruppo di pari, il primo scoglio che incontrano, con cui devono imparare ad avere a che fare è il seguente: le “prese in giro”, cosiddette dai ragazzini, che sono poi le critiche in senso più ampio, alcune delle quali colgono nel segno di una loro debolezza, altre meno – come avverrà nelle critiche che continueranno a ricevere da adulti – , ma sono espresse spesso con una certa spietatezza, e con una particolare sfumatura canzonatoria. Come se, da parte dei compagni, fosse più importante il fatto stesso di fare le critiche e di vedere se e come il proprio compagno o compagna le accetta, che il particolare merito della critica. . . se non c’è, lo si inventa: ci sono ragazzini che si lamentano del fatto che viene storpiato il loro cognome, e così vengono presi in giro, motivazione decisamente pretestuosa.
Effettivamente non è facile accettare tali critiche-prese in giro, soprattutto in quel particolare momento della vita, in cui si è spinti dalla crescita verso un difficile ma importante cambiamento: da un modello relazionale osmotico-fusionale, in cui io-bambino percepisco la mamma al mio servizio, pronta ad appagare i miei bisogni, a spianarmi la strada dalle difficoltà; ad un modello più dialettico, la relazione con il gruppo dei pari. Qui io sono uno del mucchio, in cui gli altri magari mi offrono anche complicità ed amicizia, ma allo stesso tempo non mi risparmiano critiche. Emergono le nostre differenze, e il fatto che l’altro metta al centro delle sue attenzioni i propri bisogni, non i miei, anche perché è affaccendato nella stessa crisi evolutiva, ma a modo suo.
Si può, dunque, reagire a tale cambiamento con una profonda nostalgia per un universo in cui per la mamma si è speciali, coccolati, oggetto di grandi aspettative ma anche di grandi assoluzioni.
Si può, inoltre, interpretare tale nuovo universo relazionale con una sfumatura paranoica: “ce l’hanno tutti con me”, senza rendersi conto che gli stessi rimandi critici sono riservati anche ai propri compagni.
In ogni caso si prova un’intensa sofferenza: ogni critica viene vissuta come ferita narcisistica, cioè ferita all’immagine di sé, come se portasse via un lembo di pelle. E quella spietatezza canzonatoria, con cui i compagni continuano a muovere critiche, può essere anche interpretata come un disinfettante doloroso ma necessario per curare una ferita purulenta, quindi con un valore di spinta alla guarigione e alla crescita.
Nel momento in cui il ragazzino accetta di confrontarsi con il nuovo universo relazionale, e vi avverte anche delle potenzialità, ad es. lo sperimentarsi in un rapporto paritario, prendendo iniziative, senza dover rendere conto a mamma e papà; e asseconda così quella spinta alla crescita anche psichica, propria della sua età, affronta il secondo scoglio:
la paura di sperimentarsi in solitudine, e quindi di sbagliare, ma soprattutto il senso di colpa nei confronti dei genitori per il fatto stesso di prendere tali iniziative.
Da un lato è richiesto il coraggio di abbandonare alcune sicurezze, e di sperimentare: non mi trovo più in un mondo protetto in cui se mi comporto come mi hanno insegnato mamma e papà, sarò premiato. Nella gestione dei rapporti ad es. con il gruppo di pari devo procedere per tentavi ed errori, accettare di farlo, e trovare soluzioni.
Ricordo una ragazzina marocchina che è venuta a parlarmi. Si sentiva ed era effettivamente vittima di prese in giro, apparentemente perché straniera, ma soprattutto in quanto impossibilitata a rispondervi, a causa di un’educazione ricevuta molto rigida, che non prevedeva espressioni di aggressività.
Ha dovuto inventarsi la possibilità di essere, più che aggressiva, determinata – dicendo ad es. “ma guardati tu!”, determinazione che non era prevista, almeno negli insegnamenti espliciti della famiglia, per quanto riguarda il comportamento sociale femminile.
Ecco dunque presentarsi i sensi di colpa nei confronti dei genitori per il fatto di non seguire più tutti i loro insegnamenti, di non appagare più tutte le loro aspettative, non per scarso affetto, ma perché si è chiamati ad affrontare il nuovo universo sociale, a costruire la propria identità.
Ci sono genitori che si lamentano che i ragazzini rispondono loro male, o che semplicemente rispondono (ad es. “quelle scarpe sono da vecchio, non me le metto”); ragazzini che desiderano a volte uscire con gli amici, e sono meno adeguati alla programmazione degli impegni sportivi, prima mantenuti con più coerenza. Ragazzini che si confrontano con fratelli minori, che sembrano soddisfare maggiormente le richieste dei genitori e si sentono in colpa perché loro non lo fanno più; questo non perché non siano più “bravi bambini”, come talvolta sembrano credere, semplicemente perché non sono più bambini. Devono occuparsi di affrontare il mondo, e soprattutto di costruire la propria identità.
Come, dunque, il parto è doloroso per mamma e bambino, anche il crescere passa attraverso sentimenti dolorosi, urticanti, (ferita narcisistica, paura di sperimentarsi in solitudine e di sbagliare, sensi di colpa), ma avviene comunque, grazie alla stessa naturale spinta alla crescita; sempre che non vi siano troppi macigni che la impediscono. Tali ostacoli hanno a che fare con condizioni interne al ragazzino o legate alle dinamiche familiari, che aggravano, appesantiscono, rendono inaccettabili i sentimenti dolorosi, di cui ho parlato.
Alle difficoltà del ragazzino, in effetti, fanno eco quelle della madre, ad accettare la crescita e la separazione da lei del figlio; sofferenze materne che hanno una profondo legame e corrispondenza con quelle del minore.
La scoperta che il figlio inizi a prendere come riferimento sé o il gruppo di pari, non solo più la famiglia o la mamma, suscita innanzitutto un sentimento di paura e di ansia, in quanto si percepisce il figlio più esposto ai pericoli del mondo, al di là del proprio controllo e giurisdizione.
Tale sensazione di perdita di controllo, porta a drammatizzare i rischi e le sofferenze che il ragazzino può incontrare sulla sua strada. Ci sono madri che esagerano la portata distruttiva di qualche piccolo insuccesso scolastico del figlio, o di rimandi un po’ duri ricevuti da insegnanti o compagni, pensando, e spesso sbagliandosi, che il proprio figlio non sia in grado di affrontarle, pensando inoltre che sia compito del genitore spostare tutte le possibili frustrazioni dalla strada del proprio figlio; mentre in realtà il compito genitoriale è sempre più sostenerlo nella sua possibilità e capacità di affrontarle.
C’è, però, un altro sentimento, che si percepisce con meno immediatezza, da parte delle madri, e di chi le ascolta, ma che risuona e ispira in profondità l’evolversi oppure lo stagnare della crisi materna:
tale sentimento è, ancora una volta, la ferita narcisistica, e il dolore della separazione: “io non sono più così importante per lui”.
Dietro alle preoccupazioni delle madri - “se mio figlio si fa trascinare dalle cattive compagnie, e diventa un bullo?” Oppure “ho paura che la ragazzina non abbia personalità perché segue le indicazioni delle amiche sul vestirsi”, “e non più le mie…” mi verrebbe da aggiungere - , si cela in realtà il dolore del distacco, del vedere il figlio nella sua alterità rispetto a me mamma, nella sua maggiore autonomia, e soprattutto nel suo avere meno bisogno di me, in un futuro prossimo non averne più per nulla.
Quella solitudine che sperimenta il figlio, crescendo e facendo delle scelte, la sperimenta anche la madre, con l’aggravio dell’essere chi subisce il distacco, in molti casi chi lo permette e favorisce, essendo comunque quella che rimane, mentre il figlio salpa verso il mondo e il futuro.
Talvolta è più difficile accettare e favorire la separazione, vedere i figli crescere, per madri casalinghe, o soprattutto per cui l’essere madri è il principale, se non esclusivo oggetto di investimento e di ricarica affettiva. Per lo stesso motivo è spesso più complesso favorire la separazione dell’ultimo figlio, perché ciò toglie alla madre definitivamente un ruolo, che non può essere facilmente rimpiazzato.
In un certo senso, più sei brava come mamma, più hai dato sufficientemente fiducia a tuo figlio e ne hai favorito l’autonomizzazione, facendogli sentire sopportabili i suoi pesi, e non scaricandogli addosso i tuoi, più lavori all’esaurimento del tuo ruolo, alla finitezza, alla mortalità del tuo essere mamma.
Abbiamo visto come madri e figli si trovino ad affrontare sentimenti simili.
Innanzitutto la paura e l’accettazione dell’insicurezza, del procedere per tentativi ed errori, invece che sulla base di un modello già collaudato. Ciò implica l’accettazione che la vita, propria e dei figli, non è scevra da rischi, è in fondo un’avventura - nel senso di dover affrontare ciò che avverrà (ire ad ventura) senza conoscerlo in anticipo, e quindi l’accettazione della propria ignoranza, che ci permette di procedere illuminando solo passo per passo, potendo sbagliare e dovendo talvolta ricredersi.
L’altro importante sentimento è la ferita narcisistica del passaggio da un rapporto più fusionale, in cui ci si aspetta perfetta corrispondenza fra me e l’altro, fra i miei bisogni e le risposte dell’altro, ad una relazione più dialettica, in cui si manifestano le differenze individuali, la non corrispondenza fra le proprie aspettative e le risposte che otteniamo, e dunque la necessità di mediare.
In realtà tale passaggio non è caratterizzato da un’alternativa secca, ma da gradualità e sfumature: nel rapporto fra madre e figlio si introduce fin dall’inizio un po’ di dialettica, di coscienza dell’alterità; allo stesso tempo il rapporto di amicizia è anche un po’ fusionale, fondendo e confondendo una parte di sé nell’altro attraverso giochi di identificazioni reciproche.
In questa prospettiva, l’inevitabile nostalgia del primitivo e primario rapporto fusionale, può trasformarsi da macigno, che blocca la crescita, in fondamenta su cui costruire un’altra relazione, dialogica, fra madre e figlio, questa sì che può essere coltivata e svilupparsi nel corso della vita, conoscendone i limiti.
Come il parto, processo intensamente vitale, è intriso di paure e di dolore, così lo è “la nascita sociale” del ragazzino, cioè il suo ingresso in un mondo sociale più ampio e meno protetto di quello della famiglia e della stessa scuola elementare: l’ingresso nella scuola media, e soprattutto nel gruppo dei pari, la cui frequentazione ed appartenenza inizia ad essere gestita autonomamente dal ragazzino.
A partire dall’analisi di un importante momento di separazione madre-figlio: la preadolescenza (12 anni), che richiama tutti i precedenti momenti di distacco, cercheremo di capire quella sensazione, da un lato, di aspettativa, bisogno e ricerca di vicinanza, e allo stesso tempo di alterità, di separazione e di solitudine, che si sperimenta e ci accompagna per lungo tempo, se non per tutta la vita, come figli/e nei confronti della madre, e poi come madri nei confronti dei figli/e.
Iniziamo ad analizzare tale groviglio di sentimenti dal punto di vista dei ragazzini, sulla base dei loro racconti.
Nel momento in cui essi abbandonano il mondo protetto delle elementari, della famiglia, dell’infanzia, per entrare in quello più ampio e meno sicuro della scuola media, e in particolare del gruppo di pari, il primo scoglio che incontrano, con cui devono imparare ad avere a che fare è il seguente: le “prese in giro”, cosiddette dai ragazzini, che sono poi le critiche in senso più ampio, alcune delle quali colgono nel segno di una loro debolezza, altre meno – come avverrà nelle critiche che continueranno a ricevere da adulti – , ma sono espresse spesso con una certa spietatezza, e con una particolare sfumatura canzonatoria. Come se, da parte dei compagni, fosse più importante il fatto stesso di fare le critiche e di vedere se e come il proprio compagno o compagna le accetta, che il particolare merito della critica. . . se non c’è, lo si inventa: ci sono ragazzini che si lamentano del fatto che viene storpiato il loro cognome, e così vengono presi in giro, motivazione decisamente pretestuosa.
Effettivamente non è facile accettare tali critiche-prese in giro, soprattutto in quel particolare momento della vita, in cui si è spinti dalla crescita verso un difficile ma importante cambiamento: da un modello relazionale osmotico-fusionale, in cui io-bambino percepisco la mamma al mio servizio, pronta ad appagare i miei bisogni, a spianarmi la strada dalle difficoltà; ad un modello più dialettico, la relazione con il gruppo dei pari. Qui io sono uno del mucchio, in cui gli altri magari mi offrono anche complicità ed amicizia, ma allo stesso tempo non mi risparmiano critiche. Emergono le nostre differenze, e il fatto che l’altro metta al centro delle sue attenzioni i propri bisogni, non i miei, anche perché è affaccendato nella stessa crisi evolutiva, ma a modo suo.
Si può, dunque, reagire a tale cambiamento con una profonda nostalgia per un universo in cui per la mamma si è speciali, coccolati, oggetto di grandi aspettative ma anche di grandi assoluzioni.
Si può, inoltre, interpretare tale nuovo universo relazionale con una sfumatura paranoica: “ce l’hanno tutti con me”, senza rendersi conto che gli stessi rimandi critici sono riservati anche ai propri compagni.
In ogni caso si prova un’intensa sofferenza: ogni critica viene vissuta come ferita narcisistica, cioè ferita all’immagine di sé, come se portasse via un lembo di pelle. E quella spietatezza canzonatoria, con cui i compagni continuano a muovere critiche, può essere anche interpretata come un disinfettante doloroso ma necessario per curare una ferita purulenta, quindi con un valore di spinta alla guarigione e alla crescita.
Nel momento in cui il ragazzino accetta di confrontarsi con il nuovo universo relazionale, e vi avverte anche delle potenzialità, ad es. lo sperimentarsi in un rapporto paritario, prendendo iniziative, senza dover rendere conto a mamma e papà; e asseconda così quella spinta alla crescita anche psichica, propria della sua età, affronta il secondo scoglio:
la paura di sperimentarsi in solitudine, e quindi di sbagliare, ma soprattutto il senso di colpa nei confronti dei genitori per il fatto stesso di prendere tali iniziative.
Da un lato è richiesto il coraggio di abbandonare alcune sicurezze, e di sperimentare: non mi trovo più in un mondo protetto in cui se mi comporto come mi hanno insegnato mamma e papà, sarò premiato. Nella gestione dei rapporti ad es. con il gruppo di pari devo procedere per tentavi ed errori, accettare di farlo, e trovare soluzioni.
Ricordo una ragazzina marocchina che è venuta a parlarmi. Si sentiva ed era effettivamente vittima di prese in giro, apparentemente perché straniera, ma soprattutto in quanto impossibilitata a rispondervi, a causa di un’educazione ricevuta molto rigida, che non prevedeva espressioni di aggressività.
Ha dovuto inventarsi la possibilità di essere, più che aggressiva, determinata – dicendo ad es. “ma guardati tu!”, determinazione che non era prevista, almeno negli insegnamenti espliciti della famiglia, per quanto riguarda il comportamento sociale femminile.
Ecco dunque presentarsi i sensi di colpa nei confronti dei genitori per il fatto di non seguire più tutti i loro insegnamenti, di non appagare più tutte le loro aspettative, non per scarso affetto, ma perché si è chiamati ad affrontare il nuovo universo sociale, a costruire la propria identità.
Ci sono genitori che si lamentano che i ragazzini rispondono loro male, o che semplicemente rispondono (ad es. “quelle scarpe sono da vecchio, non me le metto”); ragazzini che desiderano a volte uscire con gli amici, e sono meno adeguati alla programmazione degli impegni sportivi, prima mantenuti con più coerenza. Ragazzini che si confrontano con fratelli minori, che sembrano soddisfare maggiormente le richieste dei genitori e si sentono in colpa perché loro non lo fanno più; questo non perché non siano più “bravi bambini”, come talvolta sembrano credere, semplicemente perché non sono più bambini. Devono occuparsi di affrontare il mondo, e soprattutto di costruire la propria identità.
Come, dunque, il parto è doloroso per mamma e bambino, anche il crescere passa attraverso sentimenti dolorosi, urticanti, (ferita narcisistica, paura di sperimentarsi in solitudine e di sbagliare, sensi di colpa), ma avviene comunque, grazie alla stessa naturale spinta alla crescita; sempre che non vi siano troppi macigni che la impediscono. Tali ostacoli hanno a che fare con condizioni interne al ragazzino o legate alle dinamiche familiari, che aggravano, appesantiscono, rendono inaccettabili i sentimenti dolorosi, di cui ho parlato.
Alle difficoltà del ragazzino, in effetti, fanno eco quelle della madre, ad accettare la crescita e la separazione da lei del figlio; sofferenze materne che hanno una profondo legame e corrispondenza con quelle del minore.
La scoperta che il figlio inizi a prendere come riferimento sé o il gruppo di pari, non solo più la famiglia o la mamma, suscita innanzitutto un sentimento di paura e di ansia, in quanto si percepisce il figlio più esposto ai pericoli del mondo, al di là del proprio controllo e giurisdizione.
Tale sensazione di perdita di controllo, porta a drammatizzare i rischi e le sofferenze che il ragazzino può incontrare sulla sua strada. Ci sono madri che esagerano la portata distruttiva di qualche piccolo insuccesso scolastico del figlio, o di rimandi un po’ duri ricevuti da insegnanti o compagni, pensando, e spesso sbagliandosi, che il proprio figlio non sia in grado di affrontarle, pensando inoltre che sia compito del genitore spostare tutte le possibili frustrazioni dalla strada del proprio figlio; mentre in realtà il compito genitoriale è sempre più sostenerlo nella sua possibilità e capacità di affrontarle.
C’è, però, un altro sentimento, che si percepisce con meno immediatezza, da parte delle madri, e di chi le ascolta, ma che risuona e ispira in profondità l’evolversi oppure lo stagnare della crisi materna:
tale sentimento è, ancora una volta, la ferita narcisistica, e il dolore della separazione: “io non sono più così importante per lui”.
Dietro alle preoccupazioni delle madri - “se mio figlio si fa trascinare dalle cattive compagnie, e diventa un bullo?” Oppure “ho paura che la ragazzina non abbia personalità perché segue le indicazioni delle amiche sul vestirsi”, “e non più le mie…” mi verrebbe da aggiungere - , si cela in realtà il dolore del distacco, del vedere il figlio nella sua alterità rispetto a me mamma, nella sua maggiore autonomia, e soprattutto nel suo avere meno bisogno di me, in un futuro prossimo non averne più per nulla.
Quella solitudine che sperimenta il figlio, crescendo e facendo delle scelte, la sperimenta anche la madre, con l’aggravio dell’essere chi subisce il distacco, in molti casi chi lo permette e favorisce, essendo comunque quella che rimane, mentre il figlio salpa verso il mondo e il futuro.
Talvolta è più difficile accettare e favorire la separazione, vedere i figli crescere, per madri casalinghe, o soprattutto per cui l’essere madri è il principale, se non esclusivo oggetto di investimento e di ricarica affettiva. Per lo stesso motivo è spesso più complesso favorire la separazione dell’ultimo figlio, perché ciò toglie alla madre definitivamente un ruolo, che non può essere facilmente rimpiazzato.
In un certo senso, più sei brava come mamma, più hai dato sufficientemente fiducia a tuo figlio e ne hai favorito l’autonomizzazione, facendogli sentire sopportabili i suoi pesi, e non scaricandogli addosso i tuoi, più lavori all’esaurimento del tuo ruolo, alla finitezza, alla mortalità del tuo essere mamma.
Abbiamo visto come madri e figli si trovino ad affrontare sentimenti simili.
Innanzitutto la paura e l’accettazione dell’insicurezza, del procedere per tentativi ed errori, invece che sulla base di un modello già collaudato. Ciò implica l’accettazione che la vita, propria e dei figli, non è scevra da rischi, è in fondo un’avventura - nel senso di dover affrontare ciò che avverrà (ire ad ventura) senza conoscerlo in anticipo, e quindi l’accettazione della propria ignoranza, che ci permette di procedere illuminando solo passo per passo, potendo sbagliare e dovendo talvolta ricredersi.
L’altro importante sentimento è la ferita narcisistica del passaggio da un rapporto più fusionale, in cui ci si aspetta perfetta corrispondenza fra me e l’altro, fra i miei bisogni e le risposte dell’altro, ad una relazione più dialettica, in cui si manifestano le differenze individuali, la non corrispondenza fra le proprie aspettative e le risposte che otteniamo, e dunque la necessità di mediare.
In realtà tale passaggio non è caratterizzato da un’alternativa secca, ma da gradualità e sfumature: nel rapporto fra madre e figlio si introduce fin dall’inizio un po’ di dialettica, di coscienza dell’alterità; allo stesso tempo il rapporto di amicizia è anche un po’ fusionale, fondendo e confondendo una parte di sé nell’altro attraverso giochi di identificazioni reciproche.
In questa prospettiva, l’inevitabile nostalgia del primitivo e primario rapporto fusionale, può trasformarsi da macigno, che blocca la crescita, in fondamenta su cui costruire un’altra relazione, dialogica, fra madre e figlio, questa sì che può essere coltivata e svilupparsi nel corso della vita, conoscendone i limiti.
Relazione con l’altro da sé e apprendimento
"Sto imparando più da mio figlio di quanto abbia imparato dai miei genitori..."
Prendo spunto da tale considerazione, amorevolmente sorpresa, di una paziente, per parlare di relazione con l’altro da sé e apprendimento.
I genitori spesso sentendosi schiacciati dalla responsabilità dell’educarci, si sono posti nei nostri confronti più come autorità che come persone, pretendendo da noi adeguatezza a modelli. Certamente questo ci ha insegnato comportamenti e ci ha fatto apprendere competenze; ma per quanto riguarda il compito principale dell’esistenza, che è apprendere la convivenza con l’altro da sè e il rapporto io-tu, nella loro irriducibile differenza, il loro porsi come autorità ne ha diminuito i potenziali stimoli nei nostri confronti. Il loro porsi come autorità può aver stimolato dipendenza o ribellione, ma meno quel rapporto, fatto talvolta di incomprensioni e fatiche, sempre di limitazioni reciproche, ma anche di profonda dolcezza, che è la scoperta e la convivenza con l’Altro da noi, impegnato nei nostri stessi problemi esistenziali, ma a modo Proprio.
I figli dal canto loro si pongono inevitabilmente come quello che sono e sentono, talvolta resistono ai modelli da noi proposti, e sono così portatori di un notevole potenziale di apprendimento.
I nostri figli ci aiutano a rapportarci con quello che realmente sono, rinunciando alla nostra immagine ideale di loro, ma anche di noi stessi come genitori.
Ciò non vuol dire rinunciare al proprio ruolo genitoriale, fatto di responsabilità e affetto, ma vuol dire autorizzarsi a viverlo a modo proprio, come Maria, Giovanna, Francesco... accettando che anch’essi vivano l’essere bambini, ragazzi, figli a modo irriducibilmente loro.
Prendo spunto da tale considerazione, amorevolmente sorpresa, di una paziente, per parlare di relazione con l’altro da sé e apprendimento.
I genitori spesso sentendosi schiacciati dalla responsabilità dell’educarci, si sono posti nei nostri confronti più come autorità che come persone, pretendendo da noi adeguatezza a modelli. Certamente questo ci ha insegnato comportamenti e ci ha fatto apprendere competenze; ma per quanto riguarda il compito principale dell’esistenza, che è apprendere la convivenza con l’altro da sè e il rapporto io-tu, nella loro irriducibile differenza, il loro porsi come autorità ne ha diminuito i potenziali stimoli nei nostri confronti. Il loro porsi come autorità può aver stimolato dipendenza o ribellione, ma meno quel rapporto, fatto talvolta di incomprensioni e fatiche, sempre di limitazioni reciproche, ma anche di profonda dolcezza, che è la scoperta e la convivenza con l’Altro da noi, impegnato nei nostri stessi problemi esistenziali, ma a modo Proprio.
I figli dal canto loro si pongono inevitabilmente come quello che sono e sentono, talvolta resistono ai modelli da noi proposti, e sono così portatori di un notevole potenziale di apprendimento.
I nostri figli ci aiutano a rapportarci con quello che realmente sono, rinunciando alla nostra immagine ideale di loro, ma anche di noi stessi come genitori.
Ciò non vuol dire rinunciare al proprio ruolo genitoriale, fatto di responsabilità e affetto, ma vuol dire autorizzarsi a viverlo a modo proprio, come Maria, Giovanna, Francesco... accettando che anch’essi vivano l’essere bambini, ragazzi, figli a modo irriducibilmente loro.
Come aiutare i ragazzi nella scelta della scuola superiore
"Per quanto riguarda il futuro, egli non si preoccupa di prevederlo, ma di renderlo possibile" Antoine de Saint-Exupéry
Per dare una cornice alla scelta della scuola superiore, vorrei sottolineare in primo luogo che non si tratta di scegliere al posto dei figli, ma insieme a loro. A dire il vero, è più una scelta loro che dei genitori, ma con l’importante presenza degli adulti accanto per aiutarli a ragionare, a fare un esame di realtà, anche a sdrammatizzare.
I ragazzi, infatti, in tale periodo di vita e di fronte a tale scelta, provano alcune ansie, legate alla crescita e alla trasformazione, al fare alcune cose per la prima volta, al non sapere quanto possono contare su di sé, alla paura di sbagliare. Compito del genitore è contenere tali ansie, sdrammatizzandole prima di tutto dentro di sé.
D’altro canto i ragazzi a quest’età hanno sufficienti risorse e capacità per fare delle scelte. Già da molto prima, per certi aspetti fin dalla nascita, sono elaboratori di teorie sul mondo e di strategie di comportamento, di modi di vivere. Tali modi sono provvisori, possono e devono essere corretti in base alle esperienze, agli errori e all’esame di realtà, però sono comunque presenti in ognuno dei vostri figli.
Non siete tenuti, dunque, a fare le scelte al posto loro, ma piuttosto ad accompagnarli, e a ragionare insieme a loro.
“Volo ut sis”, diceva Sant’Agostino, voglio che tu sia quello che sei, non quello che io prevedo tu debba essere." dall’intervista ad Umberto Galimberti
Per quanto riguarda la scelta stessa, un modo per sdrammatizzarla è mettere in conto che essa sia rivedibile nel tempo; accettare la possibilità dell’errore, cioè il fatto che non esiste una scelta in grado di mettere al sicuro il proprio figlio da delusioni e possibili revisioni.
Quando come genitori abbiamo a che fare con scelte migliori che riguardano i figli, siamo a volte più preoccupati che rispetto a scelte che riguardano noi personalmente; gli errori, le sofferenze dei figli bruciano più delle nostre, proprio perché li amiamo e siamo genitori partecipi. Attenzione però a questa reazione istintiva, perché i figli possono interpretare le nostre preoccupazioni, se eccessive, come una scarsa fiducia in loro, e nel fatto che siano in grado di procedere nella crescita, di prendere decisioni e di affrontare prove.
Non esiste poi una scelta migliore in assoluto, ma solo in relazione al contesto in cui ci si trova, considerando com’è il ragazzo in quel momento, e naturalmente quali le opportunità formative presenti sul territorio.
La scelta migliore è quella più realistica, che si basi sulla considerazione delle caratteristiche, potenzialità e limiti del minore; ma soprattutto dei suoi interessi, motivazioni, e passioni.
E’ importante dunque il confronto con gli insegnanti, ma soprattutto con il ragazzo, aiutandolo a valutare realisticamente se stesso e il contesto; a 13 anni ha ancora molto bisogno di essere sostenuto e contenuto rispetto alla tendenza a sottovalutarsi o sopravvalutarsi.
Per aiutarlo è utile che il genitore si interroghi sulla sua disponibilità a rivedere l’immagine ideale del figlio, a mettere in conto possibili delusioni, scarti dalle proprie aspettative; e a gestire tali delusioni come un accadimento e un problema dell’adulto, senza farlo ricadere sul figlio.
E’ naturale e comprensibile avere tali aspettative ideali, proprio perché i genitori pensano che se i figli fossero così come “dovrebbero,” sarebbero favoriti nel cammino dell’esistenza, non andrebbero incontro a delusioni e frustrazioni. Realisticamente però alcune frustrazioni sono inevitabili, e il compito del genitore non è eliminarle, quanto piuttosto aiutare il ragazzo a gestirle come una parte normale della vita, a trovare le proprie strategie per affrontarle, e ad imparare da esse.
A volte un allontanarsi dalle aspettative genitoriali è per il figlio un trovarsi.
Ridimensionando il peso delle delusioni e dei possibili errori, il genitore può invece aprire lo sguardo su quello che realmente è il ragazzo, confrontandosi e discutendo con lui, e aiutandolo così, attraverso il dialogo, a comprendersi nelle proprie potenzialità e nei propri limiti.
Mantenendo un atteggiamento fermo rispetto ad ansie eccessive per il futuro, il genitore sia invece generoso nel cogliere le particolarità del singolo: non solo potenzialità e limiti, ma anche interessi, motivazioni, passioni.
Il crescere, e la vita stessa, hanno un’indubbia complessità, proprio perché nessuno ha la sfera magica per prevedere il futuro, e si procede per tentativi ed errori. Ma la conoscenza di sé (gnozi eautòn degli antichi greci) è un valore e una fondamentale risorsa nell’orientarsi.
Sottolineo, per concludere, la necessità di prendere in considerazione anche e soprattutto gli interessi del ragazzo. E’ vero che si cresce e si impara confrontandosi con le regole, accettando e gestendo possibili frustrazioni, ma una spinta fondamentale all’apprendimento è proprio il piacere, il fare ciò che piace e appassiona; è la motivazione che aiuta a tollerare meglio la fatica, a superare delusioni, e a sostenere l’impegno richiesto da qualsiasi percorso formativo.
Per dare una cornice alla scelta della scuola superiore, vorrei sottolineare in primo luogo che non si tratta di scegliere al posto dei figli, ma insieme a loro. A dire il vero, è più una scelta loro che dei genitori, ma con l’importante presenza degli adulti accanto per aiutarli a ragionare, a fare un esame di realtà, anche a sdrammatizzare.
I ragazzi, infatti, in tale periodo di vita e di fronte a tale scelta, provano alcune ansie, legate alla crescita e alla trasformazione, al fare alcune cose per la prima volta, al non sapere quanto possono contare su di sé, alla paura di sbagliare. Compito del genitore è contenere tali ansie, sdrammatizzandole prima di tutto dentro di sé.
D’altro canto i ragazzi a quest’età hanno sufficienti risorse e capacità per fare delle scelte. Già da molto prima, per certi aspetti fin dalla nascita, sono elaboratori di teorie sul mondo e di strategie di comportamento, di modi di vivere. Tali modi sono provvisori, possono e devono essere corretti in base alle esperienze, agli errori e all’esame di realtà, però sono comunque presenti in ognuno dei vostri figli.
Non siete tenuti, dunque, a fare le scelte al posto loro, ma piuttosto ad accompagnarli, e a ragionare insieme a loro.
“Volo ut sis”, diceva Sant’Agostino, voglio che tu sia quello che sei, non quello che io prevedo tu debba essere." dall’intervista ad Umberto Galimberti
Per quanto riguarda la scelta stessa, un modo per sdrammatizzarla è mettere in conto che essa sia rivedibile nel tempo; accettare la possibilità dell’errore, cioè il fatto che non esiste una scelta in grado di mettere al sicuro il proprio figlio da delusioni e possibili revisioni.
Quando come genitori abbiamo a che fare con scelte migliori che riguardano i figli, siamo a volte più preoccupati che rispetto a scelte che riguardano noi personalmente; gli errori, le sofferenze dei figli bruciano più delle nostre, proprio perché li amiamo e siamo genitori partecipi. Attenzione però a questa reazione istintiva, perché i figli possono interpretare le nostre preoccupazioni, se eccessive, come una scarsa fiducia in loro, e nel fatto che siano in grado di procedere nella crescita, di prendere decisioni e di affrontare prove.
Non esiste poi una scelta migliore in assoluto, ma solo in relazione al contesto in cui ci si trova, considerando com’è il ragazzo in quel momento, e naturalmente quali le opportunità formative presenti sul territorio.
La scelta migliore è quella più realistica, che si basi sulla considerazione delle caratteristiche, potenzialità e limiti del minore; ma soprattutto dei suoi interessi, motivazioni, e passioni.
E’ importante dunque il confronto con gli insegnanti, ma soprattutto con il ragazzo, aiutandolo a valutare realisticamente se stesso e il contesto; a 13 anni ha ancora molto bisogno di essere sostenuto e contenuto rispetto alla tendenza a sottovalutarsi o sopravvalutarsi.
Per aiutarlo è utile che il genitore si interroghi sulla sua disponibilità a rivedere l’immagine ideale del figlio, a mettere in conto possibili delusioni, scarti dalle proprie aspettative; e a gestire tali delusioni come un accadimento e un problema dell’adulto, senza farlo ricadere sul figlio.
E’ naturale e comprensibile avere tali aspettative ideali, proprio perché i genitori pensano che se i figli fossero così come “dovrebbero,” sarebbero favoriti nel cammino dell’esistenza, non andrebbero incontro a delusioni e frustrazioni. Realisticamente però alcune frustrazioni sono inevitabili, e il compito del genitore non è eliminarle, quanto piuttosto aiutare il ragazzo a gestirle come una parte normale della vita, a trovare le proprie strategie per affrontarle, e ad imparare da esse.
A volte un allontanarsi dalle aspettative genitoriali è per il figlio un trovarsi.
Ridimensionando il peso delle delusioni e dei possibili errori, il genitore può invece aprire lo sguardo su quello che realmente è il ragazzo, confrontandosi e discutendo con lui, e aiutandolo così, attraverso il dialogo, a comprendersi nelle proprie potenzialità e nei propri limiti.
Mantenendo un atteggiamento fermo rispetto ad ansie eccessive per il futuro, il genitore sia invece generoso nel cogliere le particolarità del singolo: non solo potenzialità e limiti, ma anche interessi, motivazioni, passioni.
Il crescere, e la vita stessa, hanno un’indubbia complessità, proprio perché nessuno ha la sfera magica per prevedere il futuro, e si procede per tentativi ed errori. Ma la conoscenza di sé (gnozi eautòn degli antichi greci) è un valore e una fondamentale risorsa nell’orientarsi.
Sottolineo, per concludere, la necessità di prendere in considerazione anche e soprattutto gli interessi del ragazzo. E’ vero che si cresce e si impara confrontandosi con le regole, accettando e gestendo possibili frustrazioni, ma una spinta fondamentale all’apprendimento è proprio il piacere, il fare ciò che piace e appassiona; è la motivazione che aiuta a tollerare meglio la fatica, a superare delusioni, e a sostenere l’impegno richiesto da qualsiasi percorso formativo.