Si è svolto in questi giorni, presso il Politecnico di Torino, un importantissimo evento culturale: il Festival della Tecnologia. Davvero un’ottima occasione per riflettere su temi sempre più attuali e urgenti, quali il rapporto tra uomo e sviluppo tecnologico, o i rischi di dipendenza patologica da strumenti e social sempre più ingaggianti. Ho avuto l’occasione di ascoltare la conferenza di Maurizio Ferraris, noto e riconosciuto filosofo torinese.
Prendo spunto da alcune sue considerazioni: l’uomo è un animale "naturalmente artificiale", la cui esperienza è caratterizzata fin dalle origini dall’uso di strumenti tecnologici. Nell’enigma della Sfinge l’uomo è definito come animale che all’inizio della vita cammina su quattro gambe, nella fase centrale su due, e alla fine su tre; ci si riferisce all’uso del bastone, che può già definirsi uno strumento tecnologico. La psicologia, occupandosi dell’esperienza dell’uomo (animale tecnologico), si occupa inevitabilmente di tecnologia: il linguaggio stesso, e ancor più la scrittura, sono, di per sé, strumenti tecnologici. A questo proposito è davvero interessante ricordare che l’uso di nuovi strumenti tecnologici ha da sempre suscitato paure e resistenze: Platone, nel Fedro, critica la scrittura e l’uso dei libri nell’insegnamento, sostenendo, ad esempio, che nessuno si fiderebbe di un medico che si sia formato solo sui libri.
A parere di Ferraris lo sviluppo tecnologico non condurrà comunque a una ’ragione artificiale’, o razionalità tecnologica: non si verificherà cioè uno scenario in cui le macchine dettino i fini, e governino l’umanità e i suoi progetti. Questo perché l’uomo si distingue dalla macchina proprio in quanto è mosso da finalità e progetti: il boscaiolo che usa la motosega ha la finalità di abbattere l’albero, mentre la motosega non ha alcuna finalità. Sono gli organismi ad avere finalità in quanto mortali: la loro finalità è mantenere e trasmettere la vita. Per questo, secondo Ferraris, la differenza tra uomo e macchina non è certo nella mente e nell’intelligenza (entrambi ne sono dotati), ma nel corpo, il quale è caratterizzato da irreversibilità, è mortale (le macchine sono ON-OFF, e possono essere riaccese in teoria all’infinito, mentre quando l’organismo è OFF lo è per sempre, la vita non si può accendere e spegnere come un dispositivo tecnologico).
Le mie riflessioni a partire da questi interessanti stimoli sono che, quando parliamo di psicologia umana, non dobbiamo mai dimenticare che parliamo dell’uomo in quanto uomo tecnologico; l’esperienza dell’uomo è sempre condizionata/potenziata, inevitabilmente, da strumenti tecnologici: il bastone, la scrittura, gli occhiali, l’automobile ... e oggi il pc e il web... E la psicoterapia delle cosiddette ’nuove dipendenze’ non deve dimenticare che tutti noi siamo dipendenti dagli strumenti tecnologici che usiamo, ma si tratta (di solito) di una dipendenza funzionale ai nostri scopi. La domanda che guiderà lo psicoterapeuta sarà quindi: perché nella storia soggettiva di questa persona la dipendenza utile e necessaria che tutti noi abbiamo si è progressivamente trasformata in una dipendenza invalidante, schiavizzante, che ostacola le finalità di benessere, autoespressione, socializzazione, partecipazione... ?
Prendo spunto da alcune sue considerazioni: l’uomo è un animale "naturalmente artificiale", la cui esperienza è caratterizzata fin dalle origini dall’uso di strumenti tecnologici. Nell’enigma della Sfinge l’uomo è definito come animale che all’inizio della vita cammina su quattro gambe, nella fase centrale su due, e alla fine su tre; ci si riferisce all’uso del bastone, che può già definirsi uno strumento tecnologico. La psicologia, occupandosi dell’esperienza dell’uomo (animale tecnologico), si occupa inevitabilmente di tecnologia: il linguaggio stesso, e ancor più la scrittura, sono, di per sé, strumenti tecnologici. A questo proposito è davvero interessante ricordare che l’uso di nuovi strumenti tecnologici ha da sempre suscitato paure e resistenze: Platone, nel Fedro, critica la scrittura e l’uso dei libri nell’insegnamento, sostenendo, ad esempio, che nessuno si fiderebbe di un medico che si sia formato solo sui libri.
A parere di Ferraris lo sviluppo tecnologico non condurrà comunque a una ’ragione artificiale’, o razionalità tecnologica: non si verificherà cioè uno scenario in cui le macchine dettino i fini, e governino l’umanità e i suoi progetti. Questo perché l’uomo si distingue dalla macchina proprio in quanto è mosso da finalità e progetti: il boscaiolo che usa la motosega ha la finalità di abbattere l’albero, mentre la motosega non ha alcuna finalità. Sono gli organismi ad avere finalità in quanto mortali: la loro finalità è mantenere e trasmettere la vita. Per questo, secondo Ferraris, la differenza tra uomo e macchina non è certo nella mente e nell’intelligenza (entrambi ne sono dotati), ma nel corpo, il quale è caratterizzato da irreversibilità, è mortale (le macchine sono ON-OFF, e possono essere riaccese in teoria all’infinito, mentre quando l’organismo è OFF lo è per sempre, la vita non si può accendere e spegnere come un dispositivo tecnologico).
Le mie riflessioni a partire da questi interessanti stimoli sono che, quando parliamo di psicologia umana, non dobbiamo mai dimenticare che parliamo dell’uomo in quanto uomo tecnologico; l’esperienza dell’uomo è sempre condizionata/potenziata, inevitabilmente, da strumenti tecnologici: il bastone, la scrittura, gli occhiali, l’automobile ... e oggi il pc e il web... E la psicoterapia delle cosiddette ’nuove dipendenze’ non deve dimenticare che tutti noi siamo dipendenti dagli strumenti tecnologici che usiamo, ma si tratta (di solito) di una dipendenza funzionale ai nostri scopi. La domanda che guiderà lo psicoterapeuta sarà quindi: perché nella storia soggettiva di questa persona la dipendenza utile e necessaria che tutti noi abbiamo si è progressivamente trasformata in una dipendenza invalidante, schiavizzante, che ostacola le finalità di benessere, autoespressione, socializzazione, partecipazione... ?