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valeria rosso psicologo psicoterapeuta torino
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Rispetto alla filmografia di Ken Loach, che spesso affronta in modo duro ed efficace le condizioni di vita degli ultimi, “Sorry, we missed you” non fa eccezione: ci offre un quadro crudo e spietato dei cosiddetti ‘nuovi lavori’, senza tutele né garanzie, senza orari, ferie, riposi, competitivi e disumanizzanti. Ma quest’ultima fatica di Loach ci interessa da vicino perché sa intrecciare mirabilmente il tema del lavoro con una storia familiare molto ‘vera’, umanamente toccante, nello stesso tempo drammatica e tenera.
Il protagonista lascia lavori precari per divenire corriere di una ditta di distribuzione, unica possibilità di realizzare il sogno, sfumato anni prima con la crisi, di una casa di proprietà per la propria famiglia. Ma per farlo deve acquistare a rate il furgone per le consegne e quindi convince la moglie a vendere l’auto con cui si recava al suo lavoro di assistente infermieristica a domicilio, anche lei con orari massacranti e lunghi spostamenti da una parte all’altra della città. I ritmi e i tempi familiari ne vengono stravolti, i contatti con i due figli passano ormai quasi unicamente dallo smartphone, non rimane che un fugace saluto la sera tardi…
Spicca la vicenda del giovane Seb, tipico adolescente dei nostri tempi che gli assurdi ritmi lavorativi di entrambi i genitori lasciano solo e fuori controllo, capace di essere un geniale street artist, ma ingenuo al punto da lasciarsi coinvolgere in una rissa a scuola, essere sospeso, e poi farsi sorprendere mentre compie un piccolo furto. Le vicende di padre e figlio si intrecciano, perché, convocato d’urgenza in polizia, il padre deve abbandonare senza preavviso il lavoro e i suoi ritmi che non perdonano. Gli agiti di Seb possono sembrare un estremo disperato tentativo di ribellarsi alla situazione invivibile che si è creata, di richiamare la presenza dei genitori, di ‘dire’ in qualche modo al padre che, promettendogli di essere ‘imprenditore di se stesso’, lo hanno fregato. In una scena drammatica in cui il padre sottrae al figlio lo smartphone, simbolo del nostro tempo, e i due vengono alle mani, Seb dice chiaramente al padre che non vuole diventare come lui: accusa e richiesta disperata di ribellarsi e di non subire più lo sfruttamento spietato a cui si è piegato.
Da parte sua Liza, la figlia undicenne fin troppo saggia, un po’ adultizzata, complice del padre in una giornata di delicata poesia in cui lo accompagna a fare consegne, riesce a fare di peggio: nasconde le chiavi del furgone, inconsapevole degli enormi guai che ciò procurerà al padre già vittima di un agguato e relativo pestaggio, per dichiarare poi tra le lacrime che ha pensato che solo ciò poteva mettere fine a quell’inferno… A modo suo, quindi, anche Liza cerca di riparare una situazione non più accettabile ma, senza volerlo, la peggiora.
Così come il ‘lavoro autonomo’ sembra nascondere in realtà una nuova schiavitù, i comportamenti ribelli, o ingenui, dei figli celano una denuncia e una richiesta di riscatto forse impossibile: il padre, ferito dolorante e assonnato, torna comunque al lavoro mentre moglie e figli, disperatamente uniti, cercano di impedirglielo. Lo spettatore non può non pensare che stia compiendo un agito ancor più grave e drammatico di quelli dei figli: che stia andando a morire sacrificando la vita in una estrema denuncia di un mercato del lavoro, che non lascia scampo nonostante l’umanità dei protagonisti.

Vedi il trailer del film

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