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valeria rosso psicologo psicoterapeuta torino
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Vi consiglio la visione del film giapponese che ha vinto la palma d’oro a Cannes: “Un affare di famiglia”. Riguarda un concetto tradizionale, e un’esperienza basilare nella costruzione dell’identità di ognuno di noi: la famiglia; ma lo fa in un modo rivoluzionario.
Il film racconta la storia di sei persone che condividono casa e affetti, come se fossero una famiglia: una signora anziana, due donne che si immagina possano essere le sue figlie, il compagno della più matura di esse e due bambini, che si immagina possano essere i figli della coppia. Lo sviluppo della narrazione ci porta da un lato ad avvertire quanto tale famiglia fornisca affetti e cure, dialogo e trasmissione di saperi; e d’altro canto a scoprire che non vi è alcun legame di sangue fra loro. Si sono incontrati, forse casualmente, e poi scelti; e ora vivono come una nonna, una coppia di genitori, due figli e una zia, ma in realtà non lo sono.
La famiglia scelta diventa luogo in cui si vedono e si curano le reciproche ferite, e si insegna che le ferite possono essere curate. La mamma e la bambina riconoscono sulle reciproche braccia segni di maltrattamenti subiti nelle proprie famiglie di origine; sia la mamma che la nonna curano le ferite della bambina.
Si parla di sessualità da adulto a ragazzino, da padre a figlio, con libertà e calore, in una dimensione di normalità, giocosità e condivisione; ottimo modo di prevenire sensi di colpa, atteggiamenti sadici o masochisti, malesseri diffusi nella società giapponese, ma anche un po’ nella nostra.
Si racconta, inoltre, alle giovani generazioni che l’amore è fatto soprattutto di legame e cuore, che non esclude la sessualità, ma non richiede ad essa regole e prestazioni. Vi sono a tal proposito dialoghi spontanei e profondi fra cognati (lui quasi anziano e lei ventenne), e fra i due coniugi stessi.
Fintanto che, a un certo punto della narrazione - non vi rivelo come, per non rovinarvi la visione del film - norme, leggi, famiglie giuridiche e biologiche rientrano in gioco, e la famiglia elettiva si scioglie - non ci è rivelato se per sempre o per un breve tempo … -, ma la sua profonda esperienza rimane dentro a ciascuno dei suoi protagonisti.
Ogni personaggio dovrà confrontarsi con norme giuridiche e sociali, chi con la propria famiglia di origine trascurante e maltrattante, chi addirittura con il carcere, chi con la comunità e con la scuola, … l’anziana signora con una norma più alta di quelle giuridiche e sociali: la propria morte.
Anche e proprio in queste pieghe più drammatiche della narrazione, si avverte quanto l’esperienza di famiglia vissuta dai protagonisti - calda, accogliente, più occupata a trasmettere affetti e saperi, che a richiedere prestazioni o adeguatezza sociale- sia importante ed offra loro risorse; permetta loro di dare calore e senso alla propria esistenza. L’aver sperimentato accoglienza, condivisione, trasmissione di saperi anche affettivi, permette di sentirsi vivi, sapere di esistere e contare su di sé.
Il regista ci ricorda che per essere davvero famiglia, e soprattutto perché la famiglia sia alla base della costruzione, della ricchezza e stabilità della personalità di ognuno dei suoi membri, non basta il legame di sangue o giuridico, ma è fondamentale la circolazione di affetti, cure reciproche, e saperi emozionali. Tale circolazione, tra l’altro, è spesso in contrasto con ritmi e richieste di una società meccanizzata e burocratica, che poco spazio concede alle variabilità individuali.
Vengono raccontate due idee di famiglia molto diverse: quella scelta e affettiva, e quella trascurante e maltrattante per alcuni protagonisti, o molto richiedente in termini di prestazioni e adeguatezza sociale, per altri. Nel film ognuno di loro non può esimersi dal provare a tenerle in equilibrio dentro di sé. E in qualche misura forse è un compito che riguarda un po’ ognuno di noi nell’arco della vita.

Vedi il trailer del film

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